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Camouflage. Quando la parola uccide il pensiero

Titolo: Camouflage. Quando la parola uccide il pensiero
Tecnica: olio e acrilico su tela
Dimensione: 100 x 100
Anno di esecuzione: 2021

L’idea dell’opera nasce dalla visione di Fantasia, cartone animato d’immemore memoria disneyana, che qualcuno giudica come un’esaltazione razzistica, al punto da rimuovere dall’originale alcune scene ritenute offensive. Vox Populi ha asserito che Walt Disney, il genio capace di divertire piccoli e grandi con le sue meraviglie animate, fosse razzista. Se tale affermazione fosse vera, perché avrebbe pensato di dare ai plumbei corvi di Dumbo l’importante ruolo di insegnanti di volo?! Perché li avrebbe fatti doppiare da attori afroamericani?! E ancora perché avrebbe creato storie che invitano tutti, in ogni tempo e luogo, a lottare in nome dei propri ideali, a prescindere dal colore della pelle?! Credo che Disney volesse criticare sarcasticamente le leggi riguardanti la segregazione razziale emanate tra il 1876 e il 1965 negli Stati del Sud, ma si sa: sono poche le persone capaci di comprendere il profondo significato e la forza dell’ironia.

Parallelamente questo quadro rappresenta un Topolino di etnia diversa dall’originale e l’intento è ben lontano dall’ideologia della discriminazione razziale; al contrario il soggetto vuole porre l’accento su una realtà inconfutabile: qualsiasi personaggio prenda parte a un’opera – che sia un dipinto, una pubblicità, una storia romanzata o un film – non può essere avulso dal proprio stato di appartenenza.

Il “Topolino” di colore simboleggia il concetto di uguaglianza che, per esistere, non necessita solo di un bel contenitore, quelle vuote parole che gli ipocriti ci impongono di adottare per non sembrare cattivi. Il rispetto si fonda sull’impegno individuale, senza il quale ogni ideale viene vanificato.

La metafora del direttore d’orchestra richiama la figura del Creatore, ma con opportune differenze. Impettito nel suo frac, il primo usa la bacchetta per dar forma a gesti stilizzati, che inducono ad accenti e colori sulle armonie musicali. Il secondo, invece, dirige le musiche sullo spartito della vita: attraverso regole inappellabili Dio dà ordine all’universo e, sul podio del creato, con potere di vita e di morte, mostra alle coscienze la via da seguire, in piena libertà. Ecco, quindi, il libero arbitrio, rappresentato da una bottiglia e un bicchiere, entrambi mezzi vuoti o mezzi pieni, a discrezione dell’interpretazione che se ne voglia dare. È proprio la possibilità di scegliere che consente all’uomo di essere ottimista o pessimista, di vivere nelle proprie convinzioni marmorizzate o di cambiare insieme alle metamorfosi del mondo, frutto di un disegno divino, ancora incomprensibile e di cui spesso si diffida.

Interpretando l’allegoria del dipinto, è opportuno riflettere sulla nostra quotidianità, fondata su un paradosso lessicale: in un regime democratico l’uomo possibilista arriva a tacciare di razzismo anche chi attribuisce al cacao un sostantivo non sufficientemente perbene. Mettere in discussione la biologia attraverso strumentalizzazioni opportunistiche e gratuite non solo distrugge anni di studi sull’uomo, ma peggio copre di ipocrisia quanto dovrebbe rappresentare la normalità: senza falsi convenzionalismi, rappresentare le differenze del genere umano equivale a evidenziare uno spaccato di realtà. Non siamo uguali davanti alla legge, come potremmo esserlo davanti a uno specchio?!

Il problema dell’uomo è non aver ancora compreso di non essere Dio. “Il serpente disse a Eva: «poiché nel giorno in cui ne mangerete si apriranno gli occhi e sarete come il Tutto (Dio), conoscendo il bene e il male»”.Se davvero sapessimo utilizzare proficuamente l’intelletto, non ci perderemmo in critiche gratuite sui social, ad anteporre la vita degli altri alla nostra. Se davvero avessimo fatto tesoro del dono della conoscenza, avremmo appreso che non sono le parole, bensì i gesti a rendere il mondo un Eden abitabile o una Babele di inutile caos.